Un viaggio lungo frontiere evanescenti, incontri con uomini e donne dalle identità fluttuanti, panoramiche su territori meticci. Quello di Volker Koepp in In Sarmatien è un percorso ai confini della geografia, della storia e ai margini del cinema. L'abbiamo incontrato
Spalle larghe e occhi azzurri, portamento maestoso e sguardo magnetico. Si presenta così Volker Koepp all'appuntamento di fronte all'hotel Ritz di Milano. Difficile definire “intervista” quella con il regista tedesco: è lui che da esperto viaggiatore orienta la disposizione delle parti, decide i tempi delle domande, conduce la conversazione.
Filmmaker e docente di Stettino, documentarista alla DEFA, gli Studios della Ddr, porta dal Cinema du Reel, nella penultima proiezione in concorso del Festival milanese, il suo Geo-Cinema, fatto di voci e di gesti, di incroci e ritrovi, di racconti e poesie.
Un viaggio storico e geografico, antropologico e personale, incorniciato dall'obiettivo della telecamera per la seconda volta (Grüße aus Sarmatien für den Dichter Johannes Bobrowski, 1972), sulla stessa difficile rotta. Lembo di terra incastrato tra la Lituania e la Bielorussia, tra l'Ucraina e la Polonia, in bilico tra l'Europa centro-orientale e l'Asia occidentale, stretta tra il Mare del Nord e il Mar Nero, bagnata dalla Vistola, dal Don e dal Volga, la Sarmazia. è quella zona mitica, «cartografata da greci e romani ai confini del mondo conosciuto», descritta come un «mondo speciale» nei poemi di Johannes Bobrowski, dispersa nelle coordinate di Google Maps, inserita in diversi capitoli dei manuali di Storia.
Dove i libri non arrivano e le mappe non segnalano, approda lo sguardo del regista tedesco, per narrare storie di esili e di guerre, di vite e destini. Un percorso che inizia dalle sponde del fiume Memel per arrivare ai confini d'Europa.
Una cartografia di generazioni e conflitti, di miti e speranze, di nostalgie e sorrisi, tracciata tra i ghiacciai e le campagne, tra i cieli e i vitigni. La bellezza delle immagini che Koepp fotografa durante il cammino è sospesa tra le testimonianze di etnie differenti: Oriente o Occidente? Furia nazista o omologazione sovietica? E il Mito dell'Europa?
Sono gli interrogativi che inseguono le esistenze dei protagonisti: Tanya, ucraina ma docente tedesca, Elena, moldava ma regista parigina, Lara, direttrice di un festival di Kaliningrad che ricorda ancora il gelato che si mangiava - più buono - in Lituania.
Definizioni di epoche e di confini che dimenticano i nomi della Storia, che tralasciano l'intersezione di linee della geografia, per dare voce a identità appena nate, o ancora sul nascere, a etnie ibride di luoghi contesi, a dettagli allargati nei primi piani di emozioni parlanti: voci spezzate e sorrisi incerti, gesti ripetuti e sguardi abbassati che riscrivono, da mille inediti punti di vista, un nuovo atlante, un volume che Koepp, forse, intitolerebbe: «La mia seconda famiglia».
Lì, In Sarmatien, “nell' Isola delle mappe perdute” (come l'ha definita lo scrittore americano Miles Harvey), dove abitano “Non persone” (Alessandro Dal Lago), arriva la forza narrativa e distintiva del cinema: curioso notare, allora, che l'essere identico, di perfetta uguaglianza, come vorrebbe il termine identità, in Sarmazia, nella terra ai confini del mondo, è una dolce utopia.
Che cosa ti ha riportato in Sarmazia? E che cosa hai trovato di diverso rispetto a quanto avevi lasciato nel 1972?
I miei lavori sono sempre film che riguardano l'Est della Germania. Da adolescente ho letto la poesia di Johannes Bobrowski (Sarmatien Time, ndr) e ho iniziato la mia ricerca in quella terra. Un progetto che ho iniziato venticinque anni fa, per il quale ho custodito e alimentato tutti i contatti che trovavo passo dopo passo, incontrando soprattutto giovani e donne. Ho voluto parlare delle storie dei miei compagni di viaggio, dare un punto di vista rivoluzionario alla storia dei libri, ai ritratti standard dei mass-media; parlare della vita e delle vite che fermentano in una “pentola bollente” importante per tutto il mondo. È un film che vuole raccontare la quotidianità, che vuole accompagnare le esistenze; purtroppo c'è stata una coincidenza non prevista: la prima proiezione, avvenuta a marzo dello scorso anno, in Germania, ha coinciso con lo scoppio della rivoluzione in Ucraina.
Sei partito da solo? E a cosa hai pensato percorrendo tutti questi chilometri?
All'inizio del viaggio eravamo in due, poi mi ha seguito una delle protagoniste del film che mi ha aiutato con le lingue. Che cosa mi ripetevo? (fissa il vuoto...) Che mi ero messo in viaggio per rivedere e riscoprire luoghi, per risentire le famiglie che avevo già conosciuto. Ero molto tranquillo, non c'è mai stata tensione con i personaggi se non quella di essere al lavoro per un nuovo progetto. Mi sono ispirato alle pagine dei romanzi tedeschi degli anni Novanta, dove si legge: «il viaggio è una scoperta continua».
Come ti sei organizzato da un punto di vista logistico? Quanto sono durate le riprese? E per la questione dei permessi?
Ho girato per cinque settimane, nell'autunno del 2013, percorrendo ottomila chilometri in macchina, attraversando confini, zone che non sapevo più rintracciare sulla carta geografica.
Non ho chiesto alcun permesso per filmare, avevo solo il visto da turista: dovevo nascondere sempre tutto il materiale. Una volta però siamo stati fermati e quindi bloccati per dodici ore (sorride...). La zona più a rischio è stata la Bielorussia, avevo chiamato l'ambasciata per avere delle informazioni ma poi, senza troppi problemi, mi sono detto: “Tento!” ed è andata bene. Anzi, benissimo; proprio qui ho incontrato il ragazzo biondo del film che mi ha spiegato, di sua spontanea volontà, l'ambiguità della situazione politica.
In tutti questi chilometri, tra tutte queste etnie e popolazioni che hai incontrato, che idea ti sei fatto del concetto di identità? Esiste? E se sì, dove risiede?
Sì, l'ho sempre trovata, ovunque andavo, in qualsiasi persona che incontravo. Identità è famiglia, patria, lingua; sono i luoghi che custodiamo nel nostro profondo, come la buona gelateria della Lituania per Elena. È un concetto difficile, “liquido”, che prende sostanza e si capisce di cosa è fatto solo quando lo si perde. È un problema globale della società contemporanea, anche se noi europei lo vediamo come qualcosa di lontano. È una questione contesa tra problemi storici e politici, causa di “disorientamento” per intere generazioni.
Dalle riflessioni che hai raccolto in tutti questi anni di ricerca, pensi che siano le persone a fare la storia o viceversa?
(riflette per qualche secondo....) Il passato influisce sempre pesantemente sul presente. Ma nella quotidianità, poi, fila tutto liscio. Il punto è che anche se la vita e la politica sono cose diverse, entrambe sono fatte da persone. (prende il giornale....) Vedete (rivolgendosi a me e all'interprete Francesca), questo è un articolo su Putin, il suo discorso di ieri: dice che la Crimea è proprietà dei russi, solleva la questione dello zar, della chiesa ortodossa, di Stalin. Il mio film è stato presentato nella Prussia Orientale ed Elena, per essere stata troppo sincera ammettendo la mancanza di democrazia in Russia, ha ricevuto critiche pesanti; come recita un proverbio russo: «La gallina per noi non è un uccello, come la Polonia non è estero». Sono le persone a fare la Storia ma anche la Storia è fatta dalle tante personalità.
Qual è il ruolo del cinema nei confronti della storia e della geografia?
Con i film non si possono influenzare né l'una né l'altra ma si può, e si deve, trovare il coraggio di parlarne. Tutte le persone che ho incontrato nella ricerca della mia Sarmazia, vogliono continuare a fare film con me per non smettere di raccontare. Vivono il mio progetto cinematografico come un'opportunità per dare voce a questioni silenziose della Storia, per ricordare la situazione attuale delle loro terre da un altro punto di vista, per raggiungere l'opinione pubblica, segnare confini dove la geografia non li ha ancora tracciati.
Di terra in terra e di volto in volto: cosa ti porti dentro da questa esperienza lavorativa e personale?
In questi anni mi sono costruito la mia seconda famiglia. Il problema è stato pormi dentro/fuori la questione, essere compagno/regista della realtà. Quest'anno, con il 25° anniversario della caduta del Muro di Berlino mi sono sentito doppiamente complice e responsabile della storia. Quelle che ho incontrato sono persone che hanno bisogno di essere protette perché davanti a un obiettivo sfogano la loro rabbia, forza e coraggio per dire cose che non sono permesse in un Paese dittatoriale.
Porto con me le emozioni delle loro voci, dei loro volti. Non posso scordare gli occhi della cugina di Tanya che durante le riprese aveva salutato il marito partito per un lavoro in Spagna. Occhi che sembravano quasi prevedere un suo non ritorno. È da quando abbiamo finito il film che non ha più sue notizie. Se mi guardo indietro, nelle fotografie dei miei incontri, preferisco ricordare il positivo, il bello di quello che ho vissuto: per alimentare la speranza.
Dai tuoi studi cinematografici, quali sono stati gli autori e i filoni di pensiero che ti hanno guidato?
Strana domanda per un documentarista settantenne... strana perché sono stati davvero tanti gli spunti. Da Chris Marker a Jean Rouch, dal cinema diretto americano al neorealismo italiano, al documentario francese, americano e russo. Quando insegno Storia del documentario a Berlino, dico ai ragazzi che cerco sempre di inserire nei miei lavori due elementi: parlare di persone in difficoltà, che stimo e che mi piacciono.
Quale credi che sia la missione dell'insegnante di cinema?
I giovani d'oggi sono sempre troppo veloci a causa del digitale, non perdono tempo per conoscersi, per approfondire. Io nelle prime lezioni li porto in campagna per farli entrare in contatto, per farli riflettere e trovare un tema, un ragione da cui partire, il cuore di un progetto da sviluppare. E per il quale bisogna combattere.
In Sarmatien – In Sarmatia di Volker Koepp, Concorso, sabato 6 dicembre, Spazio Oberdan, ore 19.00