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LA "MIA" NBA
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Domani al festival FICTS passa il documentario RAI sui quattro giocatori italiani nella lega delle stelle Usa. Parliamo di NBA “italiana”, ma anche di vita, cinema e spirito di squadra con un grande coach: Ettore Messina

 

Qualche tempo fa (nel 2011/2012, stagione del lockout, lo sciopero dei giocatori americani) pareva che un “pezzo di NBA” potesse approdare in Italia, a Bologna, nella forma atletica e possente di Kobe Bryant. Poi non se ne fece nulla. Oggi la vera NBA “italiana” si concretizza con quattro ottimi giocatori tricolori a competere nella massima serie: Bargnani (Knicks), Belinelli (già campione con gli Spurs), Datome (Pistons) e Gallinari (Nuggets).

E, soprattutto, proprio Bologna è magnificamente rappresentata, oltre che da Belinelli, dal suo straordinario viceallenatore Ettore Messina, vincente con la leggendaria Virtus delle annate 1997-2001 (culminata con il “grande slam” del 2001), poi a Treviso e Mosca.

Della precedente esperienza ai Lakers di Los Angeles racconta gioie e amarezze nel bellissimo libro Basket, uomini e altri pianeti, scritto con il giornalista Flavio Tranquillo. Oggi con i San Antonio Spurs ha appena vinto due partite da headcoach, diventando così il primo allenatore nostrano, ma anche il primo straniero, a vincere due partite guidando una squadra del campionato delle stelle e strisce.

Alle due di un pomeriggio italiano (le 7 di mattina a San Antonio) ne parliamo al telefono con lui. Messina è già reduce da una conversazione di lavoro. «La giornata NBA comincia presto rispetto a certi standard italiani…». 

 

Vorrei chiederle una riflessione e un racconto sui suoi primi mesi a San Antonio a partire dalle due recenti vittorie da headcoach contro gli Indiana Pacers e i Sacramento Kings.

Le due vittorie sono una cosa bella e non nego il piacere di quelle due serate, ma la “macchina” qui va praticamente da sola. Non dico che la “macchina” Spurs possa guidarla chiunque, ma sono entrato in meccanismi già molto ben rodati e collaudati da coach Popovich (da poco rientrato sulla panchina dopo problemi di salute, nda). I giocatori sono persone di una serietà e una professionalità incredibili, quindi anche la tensione è stata gestibile. Non nego sensazioni forti, soprattutto all’inizio, per i primi quattro o cinque minuti: sono stati momenti realmente emozionanti. Trovarsi improvvisamente headcoach, però, ti aiuta a entrare meglio e in fretta in una famiglia, in un club di enorme prestigio. Riuscire a sentirsi davvero parte degli Spurs è qualcosa che sicuramente gratifica. Per il resto si tratta di un club talmente ben organizzato, che ha così a cuore l’aspetto delle relazioni umane, che è veramente un piacere farne parte.  Ciò che contraddistingue gli Spurs, più di ogni altra squadra al mondo, è l’attenzione ai bisogni degli uomini che ne fanno parte, una forte attenzione alle necessità dei giocatori, allo staff, alle famiglie. Dettaglio non certo secondario per chi pratica sport.

 

Alcune “parole chiave” per un allenatore immagino siano: l’“ambiente”, il rapporto con i giocatori, l’adrenalina sportiva. Mi racconta il suo rapporto con Popovich, con i giocatori e in particolare con Belinelli?

Prima di tutto  ci sono due cose fondamentali, riassumibili in una sola parola: il rispetto.

Il rispetto delle persone, non limitato solo a quello che sanno fare in campo, ma anche a quello che pensano e quello che sentono.

Poi il rispetto delle regole. Senza quelle non si va da nessuna parte.

Questo vale per il più bravo di tutti come per il meno bravo. Non devono e non possono esserci regole per il più bravo e altre per il meno bravo. L’ambiente e l’adrenalina sono tutti fattori importanti, ma per me vengono dopo il rispetto.

Penso che Marco Belinelli si sia inserito molto bene. Nell’ambiente è ben voluto e in questo momento sanno di avere bisogno di un giocatore con le sue caratteristiche. Il fatto che Marco, dopo l’infortunio, non sia ancora rientrato a pieno ritmo non dico preoccupi, ma crea la consapevolezza di doverlo aiutare a riprendere la forma ideale. E lui ha la forza e i compagni giusti per farlo.

 

Gli Spurs sono reduci dal titolo, eppure dimostrano una fame di vittorie incredibile, non sottovalutano mai nessun avversario, grinta su ogni pallone, furore agonistico in ogni giocata. In qualche modo mi ricordano un po’ la sua Virtus dei tempi d’oro. È la mentalità NBA?

È la mentalità di Popovich! Qui la prima cosa che viene richiesta in campo è quella di competere con l’avversario. Devi essere sempre competitivo anche mentalmente. “Pop” non accetta che nessuno si lasci mai andare o che faccia le cose tanto per farle. Pretende questo perché lui è così in prima persona.

 

Com’è stato ritrovare Manu Ginobili che, cestisticamente, ha cresciuto lei?

È una cosa che va al di là di qualsiasi parola. La cosa più bella in assoluto però è che sia rimasto esattamente lo stesso di 12 anni fa! Una persona più matura, certo. Oggi ha dei figli e una bellissima famiglia, ma per dire una cosa banale: il successo non lo ha affatto cambiato.

 

Domani al festival FICTS passa il documentario La nostra NBA di Maurizio Fanelli, sui giocatori italiani nella massima lega. Di Belinelli mi ha detto, cosa pensa degli altri tre atleti?

Datome, non lo conosco personalmente, ma ho letto diverse sue belle interviste in cui dice cose molto intelligenti e il fatto che abbia accettato la sfida NBA piuttosto che accettare la “comodità” di una grande squadra europea – lo volevano in tante - dimostra tutta la sua determinazione e la forza di volere far strada qui negli Usa. Del “Gallo” (Danilo Gallinari, nda) ho allenato il padre e mi ricordo che lui, quando era ragazzino, giocava con mio figlio. Immagini se non gli sono affezionato! Spero che stavolta sia finita davvero la serie di sfortune fisiche. La stessa cosa vale anche per Andrea Bargnani. Hanno bisogno di stare in un ambiente che riesca a farli star bene. Come tutti i giocatori hanno solo bisogno di fiducia e dimostrare il loro valore e tutto il loro talento. Spero, da tifoso italiano, che tutti e quattro stiano bene e giochino in nazionale quest’estate per potere andare alle olimpiadi!

 

Lo scorso anno in un’intervista Pelé mi disse che a volte le immagini faticano a catturare l’epica del calcio o di qualsiasi altro sport e che il cinema spesso li mette in scena con enfasi o finzione eccessiva. Quali sono i suoi film “sportivi” preferiti?

A me piace molto Chariots of Fire, Momenti di gloria, il film sul velocista che fece le olimpiadi del ’24. C’è abbastanza epica, enfasi, tutto quello che vuole, ma è un bellissimo film. E poi mi è piaciuto molto anche 42 che ancora non credo si sia visto in Italia, un gran film sul giocatore di baseball Jackie Robinson. Sul basket amo molto Hoosiers, Colpo vincente, tradotto sfortunatamente male in italiano, fin dal titolo. Chi ha tradotto i dialoghi americani del film era sicuramente qualcuno che non conosce la pallacanestro. Un peccato che quell’edizione italiana, peraltro piuttosto introvabile, abbia buoni doppiatori, ma traduttori non altrettanto validi.

 

Una bella battuta di quel film, detta dal “coach” Gene Hackman è: «I’ll be learning from you as you’ll be learning from me» (Imparerò da voi così come voi imparerete da me). Solo una bella battuta di cinema?

Ovviamente no, vale per qualsiasi allenatore, giocatore, ma soprattutto persona. Qualcosa che tutti quanti dovremmo tenere ben presente. Abbiamo sempre da imparare gli uni dagli altri. Come si dice? “Nessuno nasce imparato”. Il sapere ascoltare e osservare gli uni gli altri è la base dell’etica, non solo sportiva.

 

La nostra NBA di Maurizio Fanelli, sab 6 dicembre, ore 22.05, Sala Parlamentino 

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