In occasione di Gli uomini di questa città io non li conosco - stasera a Filmmaker - abbiamo chiesto a Franco Maresco di parlarci del sodalizio con Franco Scaldati, dell'Italia, della situazione della cultura oggi e dell'infinita disillusione dell'uomo
L'incontro tra Franco Maresco e Franco Scaldati avviene a Palermo negli anni Ottanta. È un momento che segna un punto di svolta nella poetica di Maresco, nel suo modo di vedere e descrivere la propria città, oltre che l'inizio di un'amicizia fraterna.
Il drammaturgo – e attore – muore nel 2013, senza aver mai ottenuto il riconoscimento che gli spettava, né un proprio teatro in cui lavorare. Così il regista, e amico, si propone di realizzare un'opera in grado di portare alla luce un ritratto fedele e commosso di un grande artista contemporaneo, ingiustamente dimenticato.
Quanto è stato difficile far rivivere in immagini il teatro di Franco Scaldati?
È stato molto difficile, in primo luogo perché Franco, come drammaturgo, poeta, e come uomo in generale era molto schivo, sebbene profondamente umano e generoso. A partire dagli anni Ottanta tra di noi è nata una grande amicizia, ma il suo teatro era poco seguito, sia dal pubblico sia dagli organizzatori, per ragioni legate alla lingua (quello di Scaldati è un teatro dialettale) e perché lui non voleva cedere a compromessi. Per questo non è stato facile trovare materiali di repertorio. Tutta la documentazione riguardante gli anni Settanta è praticamente inesistente. Dopo gli anni Ottanta, invece, le persone hanno iniziato a conoscerlo, ha partecipato a qualche film, io stesso ho iniziato a riprenderlo e intervistarlo. Le nuove tecnologie, poi, hanno reso il processo più semplice.
Come ha lavorato sui materiali d'archivio?
La qualità e lo stile del film sono piuttosto discontinui, molte parti sono costruite attraverso video amatoriali. Negli anni Novanta, durante il periodo che passò al S. Severio (un centro sociale dove teneva alcuni laboratori teatrali per i giovani) c'era sempre qualcuno che portava una telecamera. Non erano professionisti, ma il materiale è molto interessante. Tutto ciò che appartiene a quel periodo è girato addirittura in VHS, per esempio Il pozzo dei pazzi diretto da Elio de Capitani, rappresentato anche a Milano. La preziosità dei documenti giustifica comunque la qualità. Grazie alla color correction poi si è riusciti a migliorarle molto.
Nei suoi film è presente l'immagine di un'Italia apatica dove la cultura sembra aver perso ogni valore. Durante i titoli di coda lei intervista alcune persone all'uscita di un teatro per chiedere se conoscessero Franco Scaldati, con risultati deludenti. È questa l'Italia oggi?
Credo che l'Italia sia un brutto Paese, un Paese che, ormai da anni, è veramente finito. Che lascia poco spazio alla speranza. Non è una questione di mitizzare un passato, nemmeno di rimpiangerlo, l'Italia in fondo è sempre stata un Paese cialtronesco, di poltroni, di furbi e furbetti. Un Paese indifferente, di notevole ingratitudine e smemoratezza sorprendente. Il tempo ha reso questa realtà e questo popolo infinitamente cinico.
Andando a ritroso nel tempo si ritrovano scrittori come Ennio Flaiano, Leo Longanesi, persino Giacomo Leopardi, che hanno raccontato un'Italia che non era affatto esemplare, ma c'è anche un passato in cui l'Italia era diversa, c'era una speranza e un progetto che con il tempo è stato cancellato. È andato tutto perduto. L'Italia oggi è un Paese apatico, non sembrano esserci motivi per sperare in un cambiamento. Pasolini aveva ragione quando diceva che non si vedono più le persone che per strada cantavano, e lo diceva quaranta o cinquanta anni fa.
Lei ha fatto un film su Tony Scott, un altro personaggio legato alla Sicilia, un grande talento con cui l'Italia è stata inclemente cancellandone la memoria. C'è un altro figlio ribelle e dimenticato del Bel Paese che le piacerebbe raccontare?
Ci sono molti uomini, intellettuali e artisti, che l'Italia ha dimenticato. La smemoratezza è una costante degli italiani, l'ingratitudine è di per sé una peculiarità dell'essere umano e in modo particolare degli italiani. Persino i nomi più noti sono accantonati con il tempo, per non parlare dei personaggi del teatro: chi ricorda Memo Benassi, Romolo Valli, Paolo Stoppa, Rina Morelli, se non gli addetti ai lavori? Ci troviamo di fronte a una deriva assoluta che sembra irreversibile. Un autore che vorrei raccontare, in questo senso, potrebbe essere Angelo Fiore, un grande scrittore palermitano che visse appartato, una figura che pochissimi conoscono in Italia. Aveva un carattere un po' folle, era un personaggio stranissimo ed è stato uno scrittore di grande forza nel Novecento. Sarebbe interessante raccontarlo, ma esiste pochissimo materiale a riguardo e bisognerebbe inventarsi un tema, un modo per farlo. Ma già è difficile trovare un finanziamento per portare alla luce la storia di personaggi più conosciuti...
Crede che l'aggettivo “cinico” la rappresenti ancora?
Cinico TV è un'esperienza a oggi definitivamente conclusa. Il periodo storico è cambiato, non avrebbe più senso. Quello che a suo tempo è stata una sfida, una provocazione, non può più esistere. Quel “cinico” oggi non avrebbe nessun significato, non potrebbe nemmeno sorprendere, non potrebbe essere una provocazione efficace. Non esiste più la speranza di smuovere qualcosa. Credo che siamo andati al di là, arrivati a un punto di non ritorno. È qualcosa che non riguarda solo l'Occidente, come si dice, è un fatto globale. Prima di tutto siamo un'umanità che sta esplodendo su questo pianeta, più di sette miliardi di individui, accalcati. Una gran parte va alla deriva, ha massacrato un intero pianeta, un'altra vive in condizioni subumane, piena di rancore. Quest'ultima parte, e faccio riferimento anche ai fatti recenti, non ha nulla da perdere, potrebbe aggredirci per ciò che abbiamo fatto, in passato. A questo bisogna aggiungere una crescita tecnologica che non si fermerà mai, qualcosa che destituisce di senso qualsiasi tentativo di preservare un'idea o un'emozione. Ogni immagine, ogni concetto viene riversato quotidianamente nelle nostre vite senza che nulla resti impresso.
Vede una grande differenza rispetto al passato?
Una volta esisteva un tempo per consumare le cose, si era più pazienti, c'era uno spostamento fisico, un tempo per l'azione e uno per la reazione. Ora si fa tutto con un clic, con un dito, persino con un movimento delle ciglia se si pensa a diavolerie come i Google Glass di cui leggo con orrore. È sempre più un mondo di edonisti, di depressi, di frustrazione e di frustrati, di infelici e di narcisisti. Ritengo sia ormai impossibile recuperare un senso di umanità, recuperare le relazioni così com'erano una volta. Gli esseri umani hanno davanti poco tempo e credo che saranno sostituiti presto da androidi, da robot, da intelligenze artificiali che è auspicabile cancellino un'umanità che non andrà da nessuna parte. Gli uomini hanno ormai raggiunto il capolinea ed è ora di scendere. Penso sarebbe un bene per il pianeta e forse anche per gli altri pianeti.
C'è una scena in Belluscone in cui lei riesce a intervistare, dopo sei mesi, il senatore Dell'Utri ma a un certo punto l'audio scompare per un problema tecnico. Sembra esserci una sorta di fato beffardo. Qualcosa che è presente anche nella storia di Scaldati e Tony Scott, che non hanno mai avuto il successo che meritavano. Lei crede nel fato?
Per via della mia formazione ed educazione credo nell'esistenza di un fato, è qualcosa di istintivo. Credo che ci siano esseri assolutamente sfortunati e altri che invece hanno più fortuna. Se poi lo si guarda da una prospettiva strettamente razionale si finisce per chiedersi effettivamente cosa siano la fortuna, la sfortuna e il destino. Ma se si riduce ogni cosa a questo livello tutto è destinato a dissolversi.
In fondo, come Scaldati, mi fido di ciò che non è definibile, ciò che non è riconducibile alla razionalità assoluta. È qualcosa che sicuramente ha aiutato a superare i secoli bui ma, a dosi massicce, elimina il mistero, che invece io ritengo fondamentale. Oggi c'è fin troppa razionalità, le nuove generazioni hanno perso il fascino del mistero, dei sentimenti, delle emozioni. Una sorta di mega riduzionismo. L'altro giorno leggevo che l'amore è un fatto chimico. La scienza ci dice che l'amore non esiste, ci spiegano che è tutta una questione di dopamina, sostanze chimiche. Tutte queste notizie, moltiplicate per milioni di volte al giorno, attraverso internet, la tv satellitare, giorno e notte, determinano un disincanto e una povertà. Togliendo il mistero, che cosa resta? Molto poco.
C'è una grande specularità tra il lavoro di Scaldati e il suo cinema. In termini di sensibilità e "visibilità".
Io e Franco avevamo molta affinità, eravamo molto simili. Poi è naturale che raccontando qualcun altro lo si scelga sulla base di somiglianze e rimandi, diventa un gioco di specchi. Non è quasi mai casuale la scelta di qualcuno, di un modello, una figura per noi importante.
Per la prima volta il personaggio principale è un suo amico. Se nel film avesse aggiunto una sua testimonianza, un'intervista a Franco Maresco su Franco Scaldati, cosa avrebbe raccontato di lui?
Devo molto a Franco, è stato un primo importante punto di riferimento nel mio tentativo di raccontare questa città. Non la Palermo della Storia, della mafia, quella che è stata già raccontata in maniera più autorevole. Una Palermo che voleva essere in realtà una metafora, un simbolo, uno scenario per raccontare la condizione umana universale. Scaldati, in questo senso, è stato per me una rivelazione, uno spunto per raggiungere il cuore di questa realtà, rielaborarlo e metterci qualcosa di mio. È stato il punto di partenza per raccontare una realtà che fino ad allora era sostanzialmente sconosciuta o veniva raccontata attraverso il folklore. In alcuni casi, anche goliardia, se penso, ad esempio, all'orchestra di Renzo Arbore. Scaldati invece è stato il primo a raccontare una città del sottosuolo. Questo è stato Scaldati, per me, e non solo per me. Era un poeta universale, i suoi testi vanno oltre e diventano poesia sublime, una forza.
La bellezza è degli sconfitti.
E chi ha la capacità di vivere, di essere totalmente se stesso,
è inevitabilmente sconfitto.
Le facce degli sconfitti, le loro voci, continuano a esistere.
Sono i vincitori che non esisteranno più.
Questo è il grande splendore dell'esistenza.
(Franco Scaldati)
Gli uomini di questa città io non li conosco di Franco Maresco, La voce umana, dom 6 dicembre, ore 21.00, Spazio Oberdan