DISCORSO SULL’UMANITÀ

DISCORSO SULL’UMANITÀ
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Oggi pomeriggio in Colpe di Stato: Elephant’s Dream di Kristof Bilsen, documentario sulla Repubblica Democratica del Congo. Il regista racconta la genesi del film al nostro quotidiano

 

«Non vi riprenderete il Congo!» canta il ritornello rap del cantante congolese Baloji all’inizio di Elephant’s Dream. È un grido di rabbia che proviene dalla lunga e ancora attuale storia di schiavitù del paese africano alle potenze straniere. 

Kristof Bilsen è presente al MFF con Elephant’s Dream, un’opera di rara bellezza e poesia. Vediamo quattro lavoratori congolesi nei loro luoghi quotidiani a Kinshasa: un’impiegata dell’ufficio della posta, due poliziotti della stazione dei treni e il capo dei vigili del fuoco in caserma.

Il silenzio delle sale vuote e dei camion scassati fermi alle stazioni deserte contrasta con il caos delle vie della città. Le parole dei personaggi si sovrappongono ai loro sguardi, al tempo passato nell’attesa di un futuro vuoto. «Il cinema che m’ispira è quello del documentarista Joshua Oppenheimer» ci racconta il regista. Un passato violento, un presente abbandonato alla globalizzazione e un domani solo sognato.

 

Kristof Bilsen è un filmmaker, video artista e fotografo che lavora ad Anversa. L’intera opera del regista è un viaggio introspettivo sui drammi delle persone che sceglie di filmare: da Parallel Lives (storia dei genitori del regista e la perdita della figlia) a Three Women (ritratto intimo di tre detenute nella prigione di Ghent). Il suo lavoro da fotografo ha avuto spesso come soggetto il continente africano.

 

Cosa ti ha spinto dal Belgio fino alla Repubblica Democratica del Congo?

Nella mia scelta ha influito il patrimonio coloniale del Belgio, che ha governato per diversi decenni il Paese e le tristi storie per cui il Congo è conosciuto all’estero. Le guerre, le torture, l’alto tasso di stupri. Tutto questo costruisce l’immagine di un luogo, dove nessuno vorrebbe mai andare, le cui dimensioni eguagliano quelle dell’Europa Occidentale.

 

Quanto tempo hai passato a Kinshasa e come ti sei avvicinato ai personaggi del film?

Sono stato nella capitale dal 2010 al 2014 e ho girato il film in sette mesi. In tutto questo tempo ho potuto costruire delle relazioni con i personaggi. Ogni giorno andavo sul loro luogo di lavoro, diventando così loro amico.

 

Nel film si susseguono sequenze di totale silenzio e di caos estremo che entrano in conflitto tra loro. Qual è il ruolo del suono nella costruzione della storia?

Per me non era sufficiente che lo spettatore vedesse l’immagine della vita dei personaggi per accorgersi del limbo in cui vivono. Volevo costruire un racconto più emozionale e il suono è stato di grande aiuto perché riesce a raccontare ciò che è invisibile, andando più a fondo nell’introspezione dei personaggi. Per Elephant’s Dream mi è sembrato normale lavorare sul suono e sul silenzio per rappresentare persone che fanno un lavoro immaginario e per lasciare spazio ai loro pensieri, in una sorta di monologo mentale.

 

La fotografia è molto suggestiva. Nella costruzione delle inquadrature c’è una preminenza dell’utilizzo della camera fissa. Come hai scelto questo stile?

Volevo mostrare la condizione di stallo in cui si trovano i personaggi. Per questo ho trovato naturale inquadrare lo spazio in cui lavorano, ad esempio la stazione dei treni, la caserma dei vigili del fuoco o l’ufficio della posta. Questi spazi diventano dei personaggi importanti nella definizione delle psicologie. Filmare le scene con macchina da presa su cavalletto è stata la soluzione.

 

I personaggi, in particolare la donna dell’ufficio della posta, sembra avere più fede nella religione che nello Stato.

In generale, il continente africano presenta un immaginario spirituale immenso e la religione, in particolare il cattolicesimo, ha preso piede in questo contesto culturale nel periodo coloniale. Ai giorni nostri le chiese pentecostali e tutte le altre correnti provenienti dagli Stati Uniti si stanno inserendo nel territorio africano: vogliono “salvare” gli africani e allo stesso tempo curare i propri interessi. La gente accetta la loro presenza perché offrono quei servizi che lo Stato non dà.

 

Nella Rep. Democratica del Congo è davvero in atto la rivoluzione della modernizzazione?

È vero che ci sono le imprese cinesi che costruiscono le strade e contribuiscono al processo di privatizzazione delle strutture statali. Questa è la globalizzazione. L’espressione “rivoluzione della modernizzazione” è di ispirazione per le persone, ma ha l’effetto dell’oppio: dicono che domani avranno i treni ad alta velocità, belle strade, ma niente si muove sulla questione dei diritti umani. Vengono inaugurati istituti di trasferimento del denaro, ma ironicamente il personale non viene pagato. Credo che nel paese sia in corso una trasformazione solo superficiale.

 

Il capo dei pompieri, personaggio epico del film, parla dell’articolo 15 della Costituzione, che sembra avere grande importanza nella mentalità della gente.

Quest’articolo è quasi una “leggenda metropolitana”. Dopo l’uccisione di Lumumba, primo presidente del Congo eletto democraticamente, Mobutu prese il potere e instaurò la dittatura. Il suo ruolo fu molto importante nel processo d’indipendenza dal Belgio. Cambiò il nome del paese, da Congo a Zaire, e diede alle vie i nomi degli eroi congolesi. Nel suo progetto c’era la volontà di restituire alla gente e alla nazione quell’identità africana e congolese che era stata cancellata dalla colonizzazione. Purtroppo non riformò il sistema di assistenza sociale che è tuttora inesistente. Così la gente è sempre stata abituata ad arrangiarsi. “Fai da te per te solo” ancora oggi fa parte dello stile di vita. Per questo, la gente lo considera parte della Costituzione, nonostante non sia realmente scritto.

 

 

Elephant's Dream di Kristof Bilsen, Colpe di Stato, mer 16, ore 14.30, MIMAT

 

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