Lo sguardo e la parola di Silvano Lippi, ex deportato e tra gli ultimi sopravvissuti dei Sonderkommando, si traducono nel film di Giovanni Cioni in strazianti interrogativi sul passato. E moniti accorati al presente
Giovanni Cioni racconta con il suo ultimo documentario, Dal ritorno, il difficile percorso di una deportazione e un rientro a casa che non riesce mai a essere tale. Silvano Lippi, prigioniero politico a Mauthausen, uno degli ultimi sopravvissuti del Sonderkommando, mantiene vivi i suoi ricordi grazie a un impegno di testimonianza e sensibilizzazione, rivolto prima di tutto alle nuove generazioni. Un uomo con un passato straziante e uno sguardo da bambino, ancora in grado di commuoversi.
Dal ritorno è prima di tutto il ricordo della sua esperienza, ma soprattutto lo svilupparsi dell'amicizia tra Cioni e Lippi in un intenso passaggio di testimone. La lettera commossa di un amico e di un fedele allievo che diviene infine maestro.
Com'è venuto a conoscenza della storia di Silvano Lippi?
Silvano è stato spesso ospite nelle scuole per raccontare la sua esperienza nel campo di Mauthausen. È stato anche nella scuola di mio figlio il quale, tornato a casa, me ne ha parlato. In seguito uno dei professori ci ha fatti incontrare e da quell'incontro è nato il film.
Quanto crede che il cinema sia in grado di dare maggiore rilievo, e potenza, alle parole - già così forti - di un uomo?
Penso che questa sia la domanda centrale del film. Silvano aveva già scritto un libro sull'argomento, aveva fatto un'intervista in televisione, ma allo stesso tempo il nostro incontro costituiva la premessa di un film che chiedeva di essere realizzato. La relazione tra di noi ha preso la forma di una lettera che io scrivo a Silvano, un testo che rivolgo all'uomo che mi chiede di riaccompagnarlo nel posto in cui la sua vita si è fermata. Attraverso questa lettera mi interrogo su che cosa significhi essere un sopravvissuto. Ma non è più solo una testimonianza, non può essere solo un racconto scritto, c'è un uomo ed è a quest'uomo e allo spettatore che rivolgo la domanda.
Perché il film è uscito solo ora, dopo la morte di Silvano?
Silvano è morto due settimane dopo il mio ritorno da Mauthausen, non ho avuto il tempo di mostrargli niente. L'idea iniziale era di partire insieme, ma non è stato più possibile, sono comunque partito da solo, e l'ho fatto per lui, per vedere quello di cui parlava. Una volta tornato pensavo di mostrargli queste immagini, costruendo in questo modo la terza parte del film. Non è andata così e io mi sono ritrovato a montare il documentario rivolto a qualcuno che non può più rispondere.
Come si è posto, da regista, di fronte all'irrappresentabilità della morte e dell'orrore?
La sola cosa che potevo fare era pormi di fronte a una persona, non di fronte al tema, allo sterminio, alla Shoah, all'orrore dei campi. L'irrappresentabile in questo caso è ciò che viveva negli occhi di Silvano. Mi sono limitato a cogliere il suo sguardo, interrogare i suoi occhi ed evocare quello che diceva. Nel farlo ho cercato di dimenticare tutto quello che avevo letto e studiato negli anni precedenti su questo tema, ho smesso di documentarmi e ho deciso di concentrarmi solo sull'uomo che racconta. Non c'è bisogno di appoggiarsi a una documentazione, la parola e lo sguardo, nella loro semplicità, sono in grado di mettere lo spettatore nella condizione di immaginare.
La storia si è quindi evoluta nel modo di raccontare di Silvano, senza una traccia?
Ho scelto l'approccio, il fatto di voler fare un film che fosse indirizzato alla persona che racconta. Avevo in mente un film costruito su spazi diversi: il luogo in cui si trova Silvano e il luogo in cui è rimasto a lungo prigioniero. Poi è intervenuto tutto ciò che è avvenuto durante le riprese, rendendo addirittura più necessario quello che era stato detto prima. È il racconto della sopravvivenza di un uomo, un uomo che sta ancora sopravvivendo. Quando ho iniziato le riprese Silvano era in ospedale per un'emorragia cerebrale, quasi come se il senso della storia si materializzasse di nuovo nelle riprese.
Nel film è mostrato semplicemente un uomo che racconta. Pensa che aggiungendo altre immagini avrebbe falsato il racconto?
Il racconto da solo è già molto straziante. Se l'avessi accompagnato a delle immagini d'archivio avrei modificato il senso del film. L'importanza della memoria sta tutta nelle sue parole, utilizzare altre immagini avrebbe rappresentato una resa di fronte al bisogno di fornire una prova ulteriore, non necessaria.
Ci sono stati dei momenti in cui ha pensato: «È troppo, come ha fatto quest'uomo a sopravvivere?»
Nel film c'è un punto in cui gli chiedo: «Com'è possibile che tu abbia vissuto questo?». Ci sono stati sicuramente momenti strazianti durante le riprese. Per esempio quando Silvano ricorda di essere stato costretto, sotto minaccia, ad affogare un prigioniero russo. È un racconto interminabile perché, mentre parla, Silvano lo rivive e quindi allunga la storia come se ne volesse ritardare la fine, ma sa comunque che lo dovrà uccidere, che l'ha già ucciso. Fisicamente era stremato dopo averlo raccontato. Un altro momento è stato quando ho dovuto dirgli che non saremmo andati insieme a Mauthausen, perché non potevo mettere a rischio la sua salute: ero molto preoccupato dalla sua possibile reazione.
Sembrava comunque felice quando, nel film, lei lo chiama da Mauthausen e gli racconta quello che ha visto.
Sì, lo era, poi dice: «Ci vediamo presto» e finisce lì. Quella è davvero l'ultima volta in cui gli ho parlato.
Quanto crede sia importante, nel 2015, continuare a ricordare?
Abbiamo archivi immensi sulla storia, conosciamo tutto eppure cose simili succedono tutt'ora, in altri modi. Avremo altre storie, altri testimoni: dalla Siria, dalla Repubblica Centrafricana…
È necessario ricordare, è importante organizzare i giorni della memoria, le visite nei campi, ma non basta, diventerebbe solo retorica se non ci si interrogasse sul senso delle stesse. Silvano raccontava che era spesso invitato a commemorazioni dove c'erano politici o sindaci che facevano il loro discorso e poi se ne andavano lasciandolo solo.
Lei crede che lui, raccontandolo, volesse liberarsi da questa sofferenza?
Silvano non si sarebbe mai liberato da questi ricordi, non era possibile, ma voleva sicuramente trasmetterli a qualcuno. Era importante che ci fosse un interlocutore. Quando è tornato dai campi si è ritrovato solo, non c'era nessuno con cui condividere la sua esperienza, nessuno che capisse. L'idea che qualcuno potesse capire, fare qualcosa della sua memoria, credo lo rassicurasse.
Il titolo del film Dal ritorno potrebbe quindi rappresentare il ritorno a Mauthausen che avrebbe voluto percorrere, ma forse anche il fatto che lui non sia effettivamente mai tornato dal campo, almeno nei ricordi...
Dal ritorno è un titolo ma anche una domanda. Ci sono tanti ritorni e ritorni che non si sono mai conclusi.
Dal ritorno di Giovanni Cioni, Fuori Concorso, mer 2 dicembre ore 21.00, Spazio Oberdan
Foto di Annalisa Gonnella