Voleva fare un film attraversando il mondo. E così, con in tasca un'idea tanto insolita quanto coraggiosa e una grande voglia di sperimentare, Jérôme Walter Gueguen arriva al MFF con il suo surreale Le sedie di Dio, in concorso nella sezione lungometraggi.
Un volto sorridente e premuroso mi accoglie. Con noi c'è la sua giovane moglie Almudena Walter Gomez, che ha recitato nel film e collaborato alla produzione.
Allora Jérôme, la sedia come incarnazione del processo produttivo e spunto di riflessione sociale. In un mondo sovraccarico di oggetti e stimoli, come mai hai scelto proprio questo?
Finiti gli studi ho comprato una piccola telecamera, ho cominciato a girare l'Europa e sono arrivato in Italia grazie a un amico, anche se l'idea di trasferirmi qui non mi stuzzicava molto. All'inizio avevo in mente la videoarte, poi ho capito che volevo qualcosa di più e che non mi sarei accontentato di vedere la mia opera solo nei musei. Volevo fare cinema, del resto è una passione che ho sin da bambino.
Serviva però un fil rouge. Tutto è iniziato da una performance a Parigi in cui rompevamo mobili. Assurdo, ma l'unica cosa che sopravvisse a quella distruzione di massa, fu una sedia. E quando ho saputo che la fabbrica che realizzava queste sedie era chiusa perché in cassa integrazione, ho capito che ci avrei fatto un film.
È questo ciò che mi ha ispirato perché non sono mai stato attirato dal design, trovo che le sedie siano brutte. Così ho iniziato il lavoro di ricerca e viaggiando mi sono confrontato con tante situazioni e tipologie di sedie.
E perché di Dio?
Questo preferisco non dirlo, mi piace mantenere il mistero, la magia. Credo sia giusto così. So benissimo cos'è Dio per me in questa società, ma ognuno ha le sue idee e sarà libero di interpretarlo come crede.
Un film nel film dai confini molto labili. È commedia surreale, è mockumentary, ma anche videoarte. Qual è predominante?
All'inizio lo vendevo come un documentario, soprattutto per facilitare la richiesta fondi. In realtà è pura finzione, è quanto di più lontano dal documentario ci sia. L'esigenza era quella di passare da una sensazione di realtà a una più onirica, di sovrapporre le due dimensioni fino a una contaminazione estrema.
Niente è come sembra, c'è sempre una sequenza pronta a smentire quella precedente. Mi piace questa assurdità e contraddizione.
La serialità degli oggetti e la loro perdita di valore nella società attuale. Quando affermi che ormai per noi tutto ha una scadenza, intendi dire che quel rapporto, unico ed empatico, che un tempo ci legava alle cose, sia profondamente cambiato. È corretto?
La società oggi vive all'insegna della velocità e del consumismo. E questo mi rammarica molto.
Per esempio, io odio Nespresso, non è buono, eppure tanta gente lo compra. È solo una soluzione più veloce e comoda rispetto alla tradizionale preparazione del caffè. Ma era proprio la magia dell'attesa a rendere unico quel rito. Oggi viviamo in un mondo che bada solo all'immagine, in cui gli oggetti perdono progressivamente valore.
«Non ci interessa la masturbazione dell'arte, ma solo guadagnare pubblico e l'arte è uno strumento di potere», afferma il produttore nel film. Vuole essere una critica all'industria del cinema?
Nel film c'è una riflessione implicita sul cinema e il mondo della produzione. Mi piace rivelare le assurdità e le contraddizioni della società. Non è tutto o bianco o nero, la mia idea è quella di cogliere le sfumature.
Ma oltre a essere una riflessione sociale ed economica, questo film ha rappresentato per me la possibilità di coniugare due sogni: fare dei film e vivere in un mondo senza soldi.
Un film da cui si evince anche il tuo gusto per le citazioni..
Mentre lo scrivevo ho rivisto per la seconda volta La classe operaia va in paradiso, un film sconosciuto in Francia ma che io trovo incredibile. Quindi ho voluto omaggiarlo con tanti riferimenti. La sequenza finale, ad esempio, è molto simile a quella iniziale del film di Petri. Anche se ci sono tante differenze, ho voluto ricreare le stesse inquadrature.
E se volessimo parlare di budget?
È molto ridotto. Non sempre abbiamo potuto pagare le persone che ci aiutavano, ciò nonostante abbiamo potuto contare su un grande appoggio e sostegno umano. Il film è autoprodotto. Per quattro anni mentre scrivevo mettevo da parte i soldi e raccoglievo le persone. Abbiamo investito i soldi del nostro matrimonio, pagandoci missaggio e montaggio. Nel film ho cercato di ricreare la follia e l'energia che hanno accompagnato il processo di lavorazione, lungo ma appassionante.
Progetti in cantiere?
Ho già un'idea per un film che girerò a Genova, una città che amiamo e nella quale ci trasferiremo a breve. Sarà un lungometraggio sugli incroci di umanità ed etnie, ambientato solo in due vicoli. Più che sull'immagine ci sarà una grande costruzione del suono.
Forse sarà un thriller e il titolo potrebbe essere l'Avventura 2, per omaggiare Antonioni [sorride].
Quindi, quell'Italia guardata con indifferenza diventa ora il Paese delle possibilità?
Sì, in un certo senso lo è per me. Non avevo mai pensato di fare film in Italia, non mi aveva mai ispirato come Paese a differenza del resto d'Europa, eppure mi ha consentito di fare il mio primo lungometraggio e quindi ho deciso di continuare la strada che mi aveva portato fortuna.
E tu Almudena, compagna nel lavoro come nella vita: un incastro perfetto...
La passione per il cinema ci ha fatto incontrare. Abbiamo condiviso tutto in questi quattro anni, attorno al film è nata una grande famiglia ed è stato bello lavorare con questo spirito.
Quello di Jérôme è un lavoro difficile, quindi il fatto che fossimo uniti da questo interesse è stato un bene per la nostra coppia. Altrimenti sarebbe stato difficile conciliare le due vite.
Concorso lungometraggi
Le sedie di Dio, mar. 9, ore 20.30, Teatro Strehler; ven.12, ore 15, Spazio Oberdan