A pochi giorni dall’inizio (4 maggio): Alessandra Speciale e Annamaria Gallone, direttori del FCAAAL, ci raccontano bellezza e difficoltà di un evento controcorrente
A pochi giorni dall’apertura del festival (4 maggio), mentre la sede del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina è in fermento per gli ultimi preparativi, incontro Alessandra Speciale e Annamaria Gallone, direttrici artistiche di questo evento cinematografico dal 1991, quando nacque per volere di Don Pedretti, fondatore del Centro Orientamento Educativo (COE).
Il festival del Cinema Africano compie 25 anni. È un importante traguardo anche per voi che lo seguite da sempre. Qual è il motore, la forza di un festival così longevo? Quali gli obiettivi?
Alessandra Speciale: Quando iniziammo il festival, l’obiettivo era andare oltre quello che offre la distribuzione italiana e presentare un cinema – soprattutto in quegli anni - totalmente assente dagli schermi cinematografici e televisivi. Allo stesso tempo, nascendo all’interno di una ONG, c’era anche un forte interesse sociale e la volontà di raccontare al pubblico italiano un aspetto inedito del continente africano: mostrare così il valore culturale dello scambio con altri popoli. L’idea era quella di non abbandonare l’impegno sociale, ma di volgere uno sguardo nuovo al panorama culturale e creativo africano, per avere una conoscenza diretta di questi paesi, non mediata dal punto di vista occidentale.
Annamaria Gallone: Sono vari i motivi che ci hanno fatto appassionare in 25 anni a questo festival. Innanzitutto la risposta entusiasta del pubblico, non solo italiano, ma anche di immigrati che vivono a Milano. Poi la gioia e la soddisfazione di seguire alcuni registi, vederli crescere e, infine, la necessità di promuovere un dialogo interculturale, soprattutto in questi giorni che vedono consumarsi un nuovo olocausto nel Mediterraneo, mentre molti si irrigidiscono in posizioni estreme di intolleranza.
Guardandovi indietro, quali sono i cambiamenti che avete potuto riscontrare nel panorama cinematografico di questi tre continenti?
A.S. In questi anni abbiamo assistito a un grande cambiamento del cinema, grazie alla rivoluzione del digitale. Se questo ha portato numerosi vantaggi, tra i quali sicuramente una maggiore libertà di espressione (penso ad esempio alla possibilità di avere accesso a film cinesi proibiti dalla censura) e a una produzione maggiore di materiale cinematografico, tuttavia sono sempre meno i film d’autore e la qualità si è notevolmente abbassata.
Pensando invece alla vostra personale esperienza, qual è il ricordo più bello che conservate?
A.G. Scegliere è impossibile! Ricordo il primo anno, quando il festival si svolse in un marzo gelido. Nevicava e i registi africani arrivarono con i sandali ai piedi. Corremmo a prendere cappotti, scarpe e guanti per tutti. O ancora, un giovane e timidissimo Sissako, ricoverato nella sacrestia di San Lorenzo, per una febbre altissima dovuta alla malaria. E, sempre nei primi anni, una gaffe che non dimenticherò mai: avevo scelto durante il festival del cinema panafricano di Los Angeles quello che sarebbe stato il film d’apertura del nostro festival. Mi aveva colpito, ma non avevo avuto la possibilità di rivederlo se non alla prima quando, nell’imbarazzo di autorità ed ecclesiasti, iniziarono a scorrere sullo schermo scene hard…
A.S. Dovendo scegliere, ricordo ancora con emozione e stupore la ressa di bengalesi che affollava lo spazio Oberdan in occasione della proiezione di un film d’autore di un regista del Bangladesh, che, scoprimmo solo in seguito, essere anche un blogger molto famoso e acclamato. Volevamo portare al festival anche gli stranieri che vivevano a Milano e ce l’avevamo fatta, avevamo ricreato un contatto con il paese d’origine!
Tornando a oggi, sta per iniziare un’edizione ricca di sezioni e di titoli. Cosa vi spinge in particolare a scegliere un film?
A.S. Solo per la competizione Finestre sul Mondo (la sezione principale dedicata a lungometraggi dei tre continenti) guardiamo circa 350 film e ne selezioniamo 11. Il primo criterio a cui ci affidiamo è la qualità, l’originalità del linguaggio e l’intensità del soggetto. Vogliamo evitare quei film che cadono nello stereotipo e che usano il pietismo e il senso di colpa per far presa sul pubblico occidentale. Cerchiamo voci originali, oneste e spontanee. Allo stesso tempo, evitiamo film con un linguaggio troppo estremo, sperimentale, troppo ostico per il nostro pubblico.
Tra i film proposti, molti affrontano temi sociali, raccontano di diritti violati. Penso ad esempio all’opera di Masharawi sul campo profughi di Al Yarmouk. Qual è il ruolo del cinema di fronte a queste realtà?
A.S. È un ruolo di denuncia, ma, soprattutto un ruolo di “attenzione”, rispetto all’informazione classica. E per attenzione intendo un’intensità e una profondità di approccio che solo un documentario o un’opera cinematografica, come ad esempio quella di Masharawi, può dedicare a un determinato evento. I reportage o i montaggi televisivi sottostanno a regole e a ritmi troppo frenetici perché possano dare al soggetto la dignità e la centralità che merita. Lo stesso vale per quei film della sezione Extr’A dedicati all’immigrazione. Puntiamo all’attenzione e non al montaggio di immagini sensazionalistiche, tragiche, che ormai non colpiscono quasi più.
A.G. Crediamo nel ruolo del cinema perché la voce di un artista può avere un peso molto più forte di qualsiasi appello delle Nazioni Unite. Un’opera come quella di Masharawi arriva direttamente al cuore e alla mente. Stiamo ritornando al cinema africano di denuncia dei primi anni. Sembène Ousmane diceva: «la camera da presa africana non parla, ma urla!». Sono passati 50 anni e ancora ci troviamo davanti alla necessità di difendere diritti umani basilari. A questo proposito penso ad alcuni titoli di questa edizione che sono davvero di grande impatto: Land Grabbing o Land Investors? o River Road, sul tema della desertificazione e la mancanza d’acqua.
In questo festival però si ride anche con la commedia Le crocodile du Botswanga
A.G. Con la sezione dedicata alla commedia, vogliamo mostrare come si divertono i tre continenti, quali sono i diversi tipi di humour. In Africa mi è capitato spesso di vedere film in cinema popolari, all’aperto, e di sentire le persone ridere di fronte a scene agghiaccianti. Non capivo, fino a quando un amico africano mi spiegò che quella non era una risata divertita, ma una risata di imbarazzo e di disagio. È curioso scoprire quali sono le differenze e, nello stesso tempo, trovare un punto di incontro: a Le crocodile du Botswanga si riderà insieme!
Altro grande protagonista del Festival è sicuramente il cibo con la sezione Films that feed- Expo 2015.
A.S. Abbiamo voluto dare molta importanza a questa sezione, dedicandole anche parte della copertina di questa edizione del festival. Abbiamo scelto opere che affrontassero tutte le problematiche connesse al tema di Expo “Nutrire il pianeta”, non solo quelle strettamente connesse al cibo. Si tratta di film creativi, autoriali che raccontano con tagli completamente diversi temi che vanno dal cibo gourmet, come Soul of a Banquet o a Cooking Up the Tribute, alla sicurezza alimentare, al land grabbing, all’energia e all’acqua.
Ospite d’eccezione di questa edizione è indubbiamente Abdehrramane Sissako. Come nasce questo invito?
A.S. Io e Annamaria incontrammo per la prima volta Sissako al Festival di Ouagadougou (Burkina Faso, Festival del cinema panafricano), dove presentava il suo primo cortometraggio fuori concorso, Le jeux. Guardammo la pellicola in un cinema popolare, nella periferia della città. Ci affascinò e decidemmo di assegnare a lui il premio COE. Da lì è iniziata la nostra amicizia personale e professionale: abbiamo presentato i suoi film al festival, abbiamo preso in distribuzione La vie sur terre e Heremakono. Quest’anno avremmo voluto aprire il festival con la prima di Timbuktu, ma il film è stato distribuito a febbraio nelle sale italiane e così, non potendo avere l’opera, abbiamo insistito per avere il regista come presidente della giuria lungometraggi.
Un appuntamento imperdibile di questa edizione del Festival?
A.S. Io consiglierei la rassegna Films that feed e le grandi anteprime. Inviterei poi il pubblico a partecipare agli incontri con i registi durante L’ora del tè, alle 18 al Festival Center, vera casa e anima del Festival (Casello Ovest Porta Venezia, Casa del Pane).
A.G. Difficile scegliere, ma di certo non mancherei a The Monk, primo film indipendente birmano dopo tanti anni, Meurtre à Pacot di Raoul Peck, un film immobile su Haiti, e Asmarina, storia corale sulla comunità eritrea a Milano e sull’eredità post-coloniale. Consiglierei anche due belle mostre fotografiche: Les Classes Moyennes en Afrique di Joan Bardeletti e Thousandpeople di Timothy Emanuele Costa.
Il Festival aprirà con Taxi Teheran di Jafar Panahi, lunedì 4 maggio, Auditorium San Fedele, ore 20.30