La retrospettiva dedicata a Lech Kowalski si apre con l’ultimo capitolo della trilogia della sopravvivenza, diviso tra i tragici ricordi della madre e il racconto della formazione newyorchese del regista
«Perché mi riprendi ora?» chiede Maria Werla al figlio Lech Kowalski. Perché lui, esattamente come lei, si sente sopravvissuto a un’esperienza pericolosa. East Of Paradise è l’ultimo capitolo di un trittico, preceduto da The Boot Factory e On Hitler’s Highway , con cui il regista polacco affronta il tema dell’emarginazione in tutte le sue forme.
Kowalski arriva a New York diciottenne per studiare Arti Visive. È sua la voce narrante che fa da sottofondo alle immagini nella seconda parte del film. Inizia girando film porno con le star più famose dell’ambiente ed entra in contatto con la scena artistica newyorkese che più di tutte manifesta il fermento e il disagio dell’epoca. La seconda metà del film è un mosaico di immagini che descrive a tutto tondo il contesto in cui vive il giovane regista. Sparatorie, morti per le strade, edifici fatiscenti e «il melodramma della vita reale che si mostra alla telecamera». Un giorno del 1978 il giovane filmmaker si ritrova immerso nel movimento punk con la prima tournée americana dei Sex Pistols. Non aveva l’intenzione di girare un film, confida la voce del narratore, ma alla fine del tour il materiale video raccolto è molto. Che farne?
Sid Vicious, cantante dei Sex Pistols, è morto di overdose. John Gringo, conosciuto al Mudd Club, è in un letto d’ospedale dal quale non uscirà vivo. «Ero un drogato. La droga e la trasgressione erano il pericolo della mia generazione».
Kowalski vive in una New York scossa dall’anarchia punk. Prostituzione, pornografia e tossicodipendenza sono le pareti di un tunnel sociale nel quale sguazza la gioventù di fine anni ‘70. Si passa dal caos dei concerti, alla strada con le sue brutture riprese e mostrate con fedeltà integrale. La telecamera registra l’autodistruzione più o meno consapevole di una gioventù bruciata e arrabbiata. La droga era un mezzo per sfuggire al sistema. La fortuna del regista sta nel poter raccontare quei giorni a distanza di anni. Quella voce roca che accompagna la visione nella seconda parte del film, riflette su quei volti segnati dalla sofferenza e si domanda se siano simili a quelli stipati nei vagoni di cui parla la madre.
Allo stesso modo, lei è testimone sopravvissuta alla deportazione in un campo di lavoro siberiano. All’inizio del secondo conflitto mondiale, Maria Werla deve lasciare la sua famiglia e affrontare la solitudine della prigionia. Furono molti i polacchi vittime del patto Hitler-Stalin sottoposti alla tortura, agli interrogatori, al lavoro forzato durante il giorno e alle notti insonni per il freddo e la fame. Eppure nel tono di questa donna c’è una fierezza che sorprende. Il racconto è dettagliato, la memoria di una ferita lontana è rimasta fresca. L’energia delle parole non diminuisce neanche quando scendono le lacrime di commozione. Il volto crudele del potere è descritto con la stessa lucida fedeltà che ritroviamo nelle riprese di quel giovane cineasta che è suo figlio. Il film racconta due storie distanti nel tempo e nello spazio, ma con un epilogo in comune, il ritorno alla vita. È una dolce vendetta dopo la lotta per non perire. Come dirà Kowalski stesso, entrambe le esperienze lasciano uno spiraglio nel quale intravedere la speranza e la forza per una salvezza.
East of Paradise di Lech Kowalski, Retrospettiva, sab 29 novembre, ore 19.30, Cinema Arcobaleno, Sala 300
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