TOMMASO PINCIO: IL REGISTA <br>È UN PICCOLO CAPO DI STATO

TOMMASO PINCIO: IL REGISTA
È UN PICCOLO CAPO DI STATO

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Il giurato del Concorso Internazionale ci parla del rapporto tra letteratura e settima arte: «La lettura di un romanzo produce in noi sensazioni astratte, ma due spettatori nello stesso cinema non vedono le stesse immagini»

 

Perché gli hanno chiesto di fare il giurato? La domanda suscita la prima di una lunga serie di risate di Tommaso Pincio. «Sono stato contattato da Cristina Piccino (tra i curatori di Filmmaker, ndr) e ho accettato volentieri per due ragioni» spiega. «La prima perché conosco Filmmaker e penso che sia una delle realtà più interessanti tra le manifestazioni dedicate al cinema in Italia». L’altra perché sono uno spettatore abbastanza onnivoro e appassionato pur non essendo un professionista del settore. Devo dire però, che nel corso degli anni, ho fatto il giurato per altri festival: l’anno scorso ero a Torino, la scorsa estate al Festival dei Corti di Bra, qualche tempo fa al Festival del Cinema di Fantascienza a Vieste.

Forse mi chiamano perché sanno che sono un appassionato di cinema e poi c’è anche questa abitudine delle organizzazioni dei festival di coinvolgere persone che non siano per forza critici o registi. L'aspetto più interessante del ruolo di giurato in un festival come Filmmaker è la possibilità di conoscere una cinematografia che di solito non è facilmente raggiungibile attraverso i canali della distribuzione convenzionale. Il documentario è un genere che raramente riesce ad arrivare in sala e, quando ci arriva, lo fa attraverso distribuzioni eccentriche. Ho trovato la selezione di quest’anno davvero notevole. I film sono tutti molto interessanti, di estrema qualità e soprattutto inaspettati rispetto a quello che comunemente ci si immagina. Un cinema che non è solo puro intrattenimento, ma neppure un esercizio culturale fine a se stesso.

 

Si definirebbe un cinefilo? Quali sono le sue preferenze?

Be', non so se mi posso meritare questo appellativo, forse sì (ride, ndr). Vedo almeno un film al giorno. E cerco di non avere pregiudizi. Sono disposto a vedere quasi tutto, ecco magari per i cinepanettoni nutro qualche riserva. 

 

Ha dichiarato più volte di essere «un pittore mancato» ripiegando così sulla scrittura. Ha mai pensato a un futuro da filmmaker?

(Ride). Forse è un po’ tardi, o forse no. Ad esempio Niccolò Ammaniti - scrittore anche lui, ha più o meno la mia età - ha appena realizzato un documentario. Ma Ammaniti ha sempre avuto il germe del cinema dentro di lui. Per quel che mi riguarda forse vale lo stesso ragionamento. In realtà quando ero ragazzo volevo frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, poi ho ripiegato sul corso di Scenografia all’Accademia di Belle Arti, sempre inerente allo spettacolo. Ho rinunciato al corso del Centro perché all’epoca c’era ancora il servizio militare obbligatorio, e uno dei requisiti d’accesso era quello di aver assolto il periodo di leva. E così ho rinviato e scelto un’altra strada.

Studiando scenografia per cinema e teatro mi sono reso conto che non avrei mai potuto fare il regista. Bisogna avere tutta una serie di qualità (organizzative, pratiche…) che io non ho, sono più portato a starmene per i fatti miei. Il regista non è soltanto un artista, è anche un piccolo capo di Stato. Ho un’idea molto individualista dell’opera che si concilia molto poco con quella del regista. Anche il documentario richiede una certa predisposizione nelle relazioni umane, e io non credo di esserci molto portato.

 

Se un regista le proponesse di realizzare un film tratto da un suo romanzo, come la prenderebbe?

Questo è già successo, in termini di progetto. Però poi, siccome siamo in Italia, il cinema fa fatica a trovare finanziamenti. Nel mio caso, il film che si era progettato di girare era anche arrivato a buon punto. C’erano già una sceneggiatura e le scenografie pronte, poi non ha decollato perché non si sono trovati i soldi per farlo. Ma mi sono tenuto abbastanza fuori da tutto. 

Penso che la letteratura e il cinema si somiglino negli intenti perché entrambi raccontano qualcosa, però sono due linguaggi profondamente diversi. Ciò che si impara in un romanzo non ha gli stessi effetti sul grande schermo, e viceversa. Paragonare i due mondi è insensato. E quando mi è capitato di dovermi confrontare con dei registi ho sempre dato loro carta bianca nelle sceneggiature. 

Alcuni miei racconti sono stati portati in teatro. Le riduzioni teatrali non sono mai come uno scrittore se le immagina, una delusione che spesso condivide con i lettori. Ma un libro, un volta pubblicato, appartiene agli altri, ed è giusto anche che tutti lo interpretino come meglio credono.

 

Esempi di buona e cattiva interpretazione? 

Un esempio concreto è Lolita di Vladimir Nabokov che ha avuto due trasposizioni cinematografiche. Quella di Stanley Kubrick è molto meno fedele di quella più recente (di Adrian Lyne, ndr). Ma è chiaro che quando mettiamo la versione del 1997 accanto a quella del 1962, la prima svanisce inevitabilmente. Non è detto che il film debba rispecchiare il romanzo dal quale è tratto, il che forse è anche un bene. Sono due linguaggi totalmente diversi. Nel cinema tutto ti viene schiaffato davanti agli occhi e le emozioni nascono dall’impatto di ciò che vedi. Poche cose sono tenute fuori dal cinema, forse solo gli odori. Quando leggiamo un romanzo abbiamo delle sensazioni molto più astratte (sentire vecchi suoni, a esempio), ma sarei stuopito se due spettatori nello stesso cinema vedessero le stesse immagini.

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