Ha diretto corti per Sky e scritto sceneggiature vincenti. Non si definisce un etnografo o un sociologo, ma le questioni sociali sono il suo pane quotidiano. Ama raccontare storie moderne e in tutti i lavori mantiene vivo il legame con la sua Sardegna. Lui è Tomaso Mannoni, quest'anno al MFF con Fino in fondo, un documentario realizzato con Alberto Badas, sul dramma umano che ha sconvolto il Sulcis.
Lo attendo sul Sagrato dello Strehler. E mentre cerco il suo volto tra la folla, Tomaso compare alle mie spalle. Il tempo di trovare un angolo di pace e accendere il registratore che la sua voce intima e sommessa ha già preso il sopravvento.
Allora Tomaso, Fino in fondo tratta una questione molto delicata e attuale. Com'è nato il progetto?
Vivo a Roma, quindi ogni volta che ci sono delle manifestazioni scendo giù a Palazzo Chigi e faccio delle riprese. E così è stato anche nel 2009 per la crisi del Sulcis.
Io e Alberto avevamo lavorato insieme per un videoclip di un gruppo rap sardo e ci siamo trovati bene. Il caso ha voluto che poco dopo ci fosse la vertenza Alcoa. Abbiamo deciso quindi di seguire da vicino la vicenda e farne dei reportage. La cosa ci ha letteralmente travolti. Quando abbiamo accumulato un po' di girato, ci siamo resi conto che c'era molto più del semplice reportage, e che ne avremmo potuto fare un film.
Il vostro vuole essere un documentario di denuncia?
Il tema reale del documentario è il disagio della precarietà, non semplicemente il lavoro, lo sfruttamento e gli accordi politici. Volevamo raccontare di un territorio con un'antica vocazione industriale a cui è stata strappata la propria identità operaia.
Ho intervistato una persona che a 67 anni, dopo una vita interamente spesa nell'azienda, per sopravvivere si è dovuto trasferire a Torino dal figlio.
Alcoa è solo lo specchio, la tappa ultima di un violento processo di privazione iniziato anni fa e che ha stuprato il Sulcis, lasciando la comunità (che lentamente sta scomparendo) in balia del niente.
«Oggi in Sardegna a prosperare è solo l'industria della disoccupazione». Il documentario mostra una realtà dolorosa senza lasciare vie di scampo.
Ad oggi è così, c'è confusione e non si sa che strada prendere. È un territorio in cui regna la disperazione, dove la popolazione riesce a vivere solo grazie alle pensioni dei novantenni. Una situazione che non potrà durare a lungo, innescata da un governo scellerato. I vertici politici sono cambiati, questo non ci dà nessuna garanzia ma ci fa vivere nella speranza che qualcosa possa cambiare.
Il nostro è un documentario che vuol far riflettere. Sono un cineasta, non sono un economista o un antropologo e non tocca a me dare delle risposte, il mio compito è solo raccontare.
Quali le reazioni suscitate dal vostro lavoro?
Prima di chiudere il montaggio abbiamo fatto una visione privata ed è stato interessante vedere come ognuno ne avesse una lettura diversa. Mentre alcuni operai, quasi adirati, hanno pensato che la nostra fosse una campagna a sfavore delle industrie, tutti gli altri hanno creduto esattamente il contrario. Due opinioni contraddittorie che non interpretano però la nostra reale volontà, che è quella di voler raccontare la verità di un disagio regalando un'emozione e uno spunto di riflessione.
Un documentario dal taglio tradizionale che utilizza l'intervista come cifra distintiva. Quale lo sguardo messo in campo da questa precisa scelta stilistica?
Alla base non c'era la volontà di schierarsi. Quello che volevamo mostrare era il punto di vista degli operai, e l'unico modo per farlo era utilizzare l'intervista con dei PP (una scelta impegnativa quando non ci sono attori professionisti).
Li avremmo potuti riprendere nel loro quotidiano, in casa o in fabbrica, ma così lo sguardo messo in campo sarebbe stato il nostro. E invece volevamo che fossero loro a raccontarsi, senza filtri. Non era giusto realizzare un documentario che badasse più all'estetica e mettesse in risalto il nostro sguardo. L'intento era quello di andare fino in fondo lasciando emergere la fierezza e la dignità di questi operai e non solo la pena e il dolore.
Com è stato vivere e lavorare con loro?
Abbiamo condiviso ogni fase, ogni dettaglio. Ci chiedevano di riprenderli mentre manifestavano, siamo stati i loro occhi per tutto il tempo. Era bello percepire il loro bisogno di raccontarsi. E una volta capite le nostre intenzioni hanno imparato a fidarsi e ad apprezzare il nostro atteggiamento spregiudicato e a volte anche un po' ingenuo (ci siamo esposti rischiando in prima persona). Siamo diventati parte di loro.
Immagino che il lavoro abbia richiesto dei tempi di lavorazione lunghi.
Sì, abbastanza. Il film è autoprodotto, e se escludiamo un piccolo sostegno dei sindacati, non abbiamo nè richiesto nè avuto finanziamenti dalle istituzioni. Io e Alberto ci siamo occupati di tutto. Sono serviti un anno di riprese e un anno di montaggio. La post produzione è stata faticosa e lunga perché avevamo tantissime ore di girato, e quindi, ai fini dell'economia del film è stato necessario fare un rigoroso processo di selezione.
Un'esperienza faticosa ma sicuramente piena di grandi soddisfazioni. Cosa ricordi con più piacere e cosa con più rammarico?
Da un punto di vista professionale il momento più emozionante è stata la sensazione di avere il film in mano. E cioè quando ho girato il piano sequenza che inizia con l'elicottero che decolla e finisce con le aggressioni dei poliziotti nei confronti degli operai. Dal punto di vista umano naturalmente i momenti più emozionanti sono quelli vissuti insieme agli operai.
Il ricordo più spiacevole invece è stato il sentimento di impotenza e l'incapacità di anticipare gli assalti della polizia. Avrei potuto prevederlo perché il mio mestiere è quello di riprendere, invece sono stato travolto da una marea di poliziotti senza avere neanche il tempo di pensare. È stato un momento di sconforto sia umano che professionale.
Il documentario, come strumento per indagare e riflettere sul sociale. Un'esigenza che l'attuale tendenza del cinema a rompere i confini di genere potrebbe mettere in pericolo?
Il mio obiettivo è fare inchieste guardando al sociale. Ma c'è anche un gusto estetico da salvaguardare. Il fatto che oggi si parli sempre più di docufiction non può che essere un bene, non un fattore di crisi. Il cinema si sta evolvendo, come nella società liquida di Bauman tutti i linguaggi si stanno influenzando e contaminando reciprocamente. È nata una nuova avanguardia, ed è bello che non ci siano più confini.
Quindi, per i tuoi progetti futuri pensi di muoverti in questa direzione?
Io e Alberto stiamo già lavorando ad un docufiction che tratterà tematiche socio ambientali e affronterà quanto successo in Sardegna con la presenza dei poligoni militari. Storia drammatica e narrativamente interessante. L'anima del lavoro sarà l'ibridazione di diverti linguaggi. Dopo aver realizzato tanti corti e un documentario/reportage, è arrivato il momento di sperimentare altri generi e cercare nuovi stimoli.
Colpe di Stato
Fino in fondo, mer. 10, ore 22, Scatola Magica; dom. 14, ore 17, Spazio Oberdan