Les Tourmentes, un film visionario che esplora i limiti della condizione umana e il potere della natura
La forza della tormenta, un gregge che fa da intermediario tra l’uomo e un mondo superiore, le antiche pratiche di stregoneria, lo smarrimento, la malattia psichiatrica: questi sono gli elementi con cui Pierre-Yves Vanderweerd ha costruito il suo film. Lo abbiamo intervistato.
I suoi film precedenti sono stati quasi tutti girati in Africa. Che cosa l’ha portato in Francia?
Sentivo la necessità di dare una svolta al mio lavoro. Il deserto del Sahara ha un grande potere immaginifico e ho ritrovato nella regione della Lozère la stessa potenza. È un territorio montuoso nel sud della Francia in cui si percepisce la forza degli elementi naturali, qui uomo e natura vivono in perfetto equilibrio, c’è un grande rispetto da parte della gente. Ho deciso di viverci per un periodo e poi è nato il film.
Come è nata l’idea del film?
Nella Lozère l’inverno dura da novembre a maggio. C’è sempre molta neve e molto vento, le tormente sono frequenti e fanno perdere totalmente il senso dell’orientamento. Qui tutti parlano sempre del tempo, dell’inverno, delle tormente, per parlare anche dei propri tormenti interiori, della propria malinconia, in francese infatti la parola tourmente li indica entrambi. La gente del posto, a causa del lungo inverno, soffre proprio “la tormenta”, come la chiamano qui. Così ho capito che dovevo lavorare su questo: sulla tormenta e sui tormenti dell’anima.
Come è venuto a contatto con la stregoneria?
In quella regione vivono molte streghe e mi hanno raccontato che secondo una pratica molto antica durante la tormenta la strega fa uscire le sue pecore, che con i loro campanelli salvano chi è si smarrito. Oltre che un’esperienza cinematografica, per me questa è stata soprattutto un’esperienza di vita. Ho voluto fare mia questa pratica, ho fatto un apprendistato di tre anni per diventare stregone e il gregge del film è il mio.
Com'è nato il legame con l’Ospedale psichiatrico di Saint Alban che nel film ha un ruolo fondamentale?
Volevo che la mia pratica evocasse chi è scomparso, chi ha smarrito la propria anima e il proprio spirito. Così durante le riprese ho incontrato i pazienti di questa clinica psichiatrica. Ho parlato con molti malati, che mi raccontavano dei loro tormenti. Spesso passeggiavano in un luogo che è un cimitero di fatto, dove sono stati sotterrati tremila pazienti dell’ospedale, tra il 1880 e il 1980, in una fossa comune, senza croci, senza date, senza nomi. Camminare in quel luogo vuol dire per loro dare un po’ di calore a quelle anime dimenticate. Sono stati loro a chiedermi di trovare i loro nomi, e di ricordarli nel film.
Così il rito ha preso forma.
Questo è un film sulla condizione umana: con i pazienti, con il gregge, con la strega che mi ha accompagnato, abbiamo attraversato l’inverno e le sue tormente. In questa atmosfera invernale abbiamo invocato le anime smarrite.
Che rapporto si è instaurato con i pazienti del Saint Alban?
È stato un rapporto di reciproco scambio, hanno partecipato attivamente. Ad esempio la scelta dei primi piani, di soffermarsi sui loro sguardi, è stata presa insieme, era un loro desiderio. Così come porre l’attenzione sulla fossa comune: così hanno espresso la loro voglia di affrontare il mondo esterno che li ha rinchiusi lì, costringendo noi a porci delle domande sul nostro rapporto con malattia mentale, con la psichiatria. Sono persone che sono volute uscire dalla condizione di malati, con cui sono etichettati, per posare per me e fare cinema insieme.
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