Un gruppo di adolescenti trascorre l'estate in un quartiere popolare e periferico tra strade dissestate e palazzoni omologati. Il ritratto provocante di una gioventù ribelle, uno sguardo schietto su una generazione in fuga. In Lupino le secche contraddizioni di François Farellacci
Volumi alti e tinte accese. Chiude così la sezione Concorso di Filmmaker 2014. Lupino, lungometraggio firmato dal regista francese François Farellacci, per la sceneggiatura di Laura Lamanda, vincitore del Premio Solinas lo scorso anno e prodotto anche grazie al crowfunding, riporta lo spettatore nell'età della ribellione.
Tra l'asfalto e i caseggiati di Lupino, quartiere di Bastia, la seconda città della Corsica, porto e centro commerciale e industriale, con il mare solo all'orizzonte e le panchine scalcinate, Anthony, Orsu, Pierre-Marie e il loro gruppo di quartiere, cercano un modo per passare l'estate. «Come si scrive indossatrice?» chiede uno dei ragazzi, «Se entri in una proprietà privata è frode» continua il compagno, e via con un veloce scambio di battute che non risparmia alcun eccesso linguistico.
Un gergo e una gestualità tipica dell'adolescenza, forse accentuata da una vita di periferia, soffocata tra l'autostrada e la collina. Le serate dei protagonisti sembrano non passare più, le giornate oscillano tra la noia di restare e la voglia di scappare, in una stagione dove - come canta il più grande della banda, «se l'inverno è di ghiaccio, l'estate è di fuoco» - tutto è più intenso, più libero.
Lo sguardo di Farellacci catapulta sin dai primi istanti l'anima del pubblico nell'età adolescenziale, senza esitazioni: musica rock ad alto volume, il frastuono del temporale, la piena di un tubo d'acqua, la sgommata con un quod, un coperchio di plastica fuso da un accendino. Sono le prime riprese, girate dal luglio a settembre, a creare l'atmosfera visiva sulla scia dell'emozione: tonalità cupe e tinte forti che si smorzano nei minuti successivi. In un simmetrico incastro di immagini e colori contrastanti, alla forza delle braccia fa seguito la delicatezza di una lacrima; in una tasca è custodito un amuleto, da un'altra esce un coltello; dalle immagini di una capanna costruita «per stare un po' assieme alla sera», dove compare un uccello catturato e poi «sparato, ma senza farlo apposta», si precipita nella nostalgia perché quel rifugio è stata bruciato.
Un ritratto che non ha bisogno di interviste per tratteggiare la vitalità esplosiva ma ancora imprecisa dei ragazzi di Lupino, la cronaca estiva di un quartiere esiliato in geografia e società, ma dal cuore pulsante di vita, di curiosità, di sogni. Un “ghetto” corsaro in provincia di Bastia che appartiene alla banda di piccoli teppisti come e quanto loro appartengono a lui. Una banda che è più di una ritrovo di amici, è una famiglia dove alimentare la fame d'esperienza, l'esuberanza della fisicità, dove guardare – insieme – il mare all'orizzonte tagliato da una gru.
Piccoli Lupini nel pieno della stagione degli eccessi: della prima adolescenza e dell'ennesima estate in città; grandi Corsari in cerca di una perenne avventura, amici degli alunni di Zero in Condotta (Jean Vigo, 1933), degli studenti di La classe (Laurent Cantet, 2008), dei protagonisti de L'intervallo (Leonardo Di Costanzo, 2012).
Un mosaico sui colori del grigio e sui toni del gergo, che intreccia quei fili tematici e quelle trame stilistiche di alcuni film proiettati in questa edizione del Festival: è il cinema esistenziale di Lisandro Alonso (Jauja), diretto e condiviso di Alessandro Abba Legnazzi (Rada), ideologico e ibrido di Bruno Bigoni (Sull'anarchia), testimone e necessario di Ossama Mohammed e Wiam Simav Bedirxan (Ma'a Al-Fidda - Silvered Water, Syria Self-Portrait), antropologico e coraggioso di Volker Koepp (In Sarmatia), rivoluzionario ed eclettico di Lech Kowalski.
Lupino di François Farellacci, Concorso, domenica 7 dicembre, ore 21.00, Spazio Oberdan
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